Teatro

Benevento Città Spettacolo: un festival di leggii illuminato da un unico faro.

Benevento Città Spettacolo: un festival di leggii illuminato da un unico faro.

Era questo l’anno del trentennale per Benevento Città Spettacolo, il festival nato nel 1980 sotto la guida del regista Ugo Gregoretti che l’ha poi diretto per un decennio, prima di passare il testimone a personaggi quali Renzo Giaccheri, Mariano Rigillo, Maurizio Costanzo e Ruggero Cappuccio. È un festival, Città Spettacolo, che da sempre ha avuto come segno distintivo un tema intorno al quale, più o meno fedelmente, i direttori artistici hanno tessuto programmazioni che mescolavano spettacolarità, impegno e produzioni originali; e dato l’occasione a giovani realtà di valore di farsi conoscere ed apprezzare da pubblico e critica (ricordiamo per tutti Ritorno ad Alphaville che nel 1986 lanciò un giovane Mario Martone). Il nome del festival inoltre indicava, sin dalla prima edizione, la volontà di integrare la città con quello che si andava a proporre, ed il delizioso capoluogo sannita diventava per l’appunto una città-spettacolo. Questa la storia, che in quanto tale appartiene al passato. Ecco l’oggi: l’assessore alla cultura di Benevento, dott. Raffaele Del Vecchio, in un incontro tra stampa ed autori, nel corso della manifestazione, ha infatti così sintetizzato la sua idea riguardo al festival: «Si tratta di un festival di teatro, quindi rivolto ad un pubblico d’elite, che si svolge in luoghi piccoli, e poco importa se ad assistere saranno al massimo 200 persone per volta. Il teatro – citiamo testualmente le parole dell’assessore alla cultura – è un’arte rivolta a pochi». Ora, al di là delle nostre considerazioni su quanto citato, crediamo che, alla luce di ciò, il comune di Benevento abbia centrato l’obiettivo confermando per la terza volta come direttore artistico Enzo Moscato, il quale ha composto un cartellone dal quale il pubblico, anche quello più irriducibile che ha voluto comunque seguire il festival, ha conseguentemente preso le distanze. Infatti proprio quest’anno - che doveva essere quello delle celebrazioni del trentennale, inaugurate con una breve ma interessantissima mostra retrospettiva sulla manifestazione ideata da un testimone storico quale Giulio Baffi - si è invece toccato il fondo con una programmazione che definire deludente è solo un elegante eufemismo. Il tema di quest’anno portava il suggestivo titolo L’ignoranza d’altro, l’ignoranza dell’altro ma, più che nei contenuti del cartellone, ci sembra che la direzione artistica lo abbia ampiamente rispettato dimostrando l’assoluta volontà di non interessare “l’altro”, ovvero il pubblico, e soprattutto di non interessarsi a cos’altro il teatro sia in grado di proporre, che non siano sterili letture verbose e senza nessun impianto teatrale. Protagonista infatti del festival è stato il leggio, presenza inquietante e scontata a quasi ogni apertura di sipario, a volte giustificata, altre invece suppletiva all’incuria con cui gli artisti hanno affrontato il compito di portare in scena il testo. Non è accettabile che nomi di attori di prestigio quali Arnoldo Foà o Umberto Orsini servano a garantire eventi teatrali, laddove la loro presenza si limita a dei semplici, per quanto apprezzabili, reading su grandi autori quali Melville o Pascoli, o che si accetti che Leopoldo Mastelloni, che avrebbe dovuto chiudere il festival con uno spettacolo celebrativo, si presenti invece anche lui in scena “accompagnato” da ben sei leggii su cui scorre la lettura di un racconto degno della linea Harmony. Sul fronte cosiddetto “giovanile” non si è andata meglio: ci si chiede perché invitare spettacoli raffazzonati e al limite dell’imbarazzante quali Juve-Napoli 1-3, la presa di Torino, tratto dal gradevole racconto di Maurizio de Giovanni, e qui portato in scena da Antonio Damasco con un’approssimazione che non riesce nemmeno a suscitare tenerezza. Ci si chiede ancora perché i pur simpatici Dario Ferrari e Nina Lombardino abbiano avuto la chance di presentare in scena una testo così banale come il loro Tradimenti. Per fortuna ci sono stati l'emozionante Shostakovic portato in scena da Saponaro con un bravo Toni Laudadio (anche lì è presente un leggio, ma come semplice elemento scenografico), c’è la ripresa del poetico Le pulle di Emma Dante (ma lo spettacolo è stato già in scena durante tutta la passata stagione), c’è lo studio su La tempesta di Rosario Sparno per la compagnia Le Nuvole, e, soprattutto, la grande Angela Pagano (nella foto), minuta, sottile come un giunco, ma dalle spalle così forti da sostenere da sola il peso di un testo non eccellente ma accattivante quale La guardiana del faro di Francesco Scotto e far diventare lo spettacolo il più interessante della manifestazione. Angela recita, canta, diverte e commuove, accompagnata dalle musiche di Piovani, eseguite in scena dalla fisarmonicista Saria Convertino, e la sua recitazione essenziale, asciutta, la sua voce inconfondibile, riescono a sopperire ad una regia onesta, seppure a tratti scontata. Un faro, quello di Angela, che ha illuminato, seppur parzialmente, il grigiore di questo snob festival di leggii!